Non era facile trasporre sul grande schermo le gesta di Ernesto Che Guevara, soprattutto dopo che il regista brasiliano Walter Salles lo aveva fatto con successo nel film I diari della motocicletta (2004),raccontando il viaggio di formazione giovanile del rivoluzionario argentino in alcuni Paesi latinoamericani.
Ora che nelle sale cinematografiche è arrivato anche Che-Guerriglia, il seguito di Che-L’argentino, del regista statunitense StevenSoderbergh (Ocean’s Thirteen, Solaris), è possibile dare un giudizio d’insieme su questo film, un progetto titanico, oltrequattrooredigirato, diviso in due parti per ovvie esigenze di distribuzione.
La documentazione di base è inappuntabile, merito tra gli altri della consulenza di Jon Lee Anderson, tra i biografi più accreditati di Guevara. Fotografia, montaggio e interpretazione sono di altissimo livello. L’attore portoricano Benicio Del Toro (Traffic, 21 grammi, Sin City), alias Guevara, raggiunge la perfezione nel calarsi nel suo personaggio a cui finisce per assomigliare fino all’inverosimile (le immagini in bianco e nero di Che-L’argentino in visita a New York dove parlerà alle Nazioni Unite sono impressionanti, come le ultime istantanee di Che-Guerriglia che precedono l’assassinio di Guevara). Eppure si ha l’impressione che tanto formale perfezionismo finisca per non dare sale e pepe al personaggio umano e politico Che Guevara.
Da Fidel alla Bolivia
La prima parte del film va dall’incontro del Che con Fidel Castro in Messico fino alla vittoria della rivoluzione nel 1959 a Cuba. La seconda inizia con l’addio all’isola (un Guevara già camuffato che i suoi figli non riconoscono nel corso di un pranzo di commiato) fino alla sua esecuzione per ordine di Washington il 9 ottobre 1967 in Bolivia, dopo essere stato catturato nel corso del conflitto a fuoco con un reparto dell’esercito. Ma né nella prima parte né nella seconda emerge la dimensione contraddittoria della personalità di Guevara.
Nel film di Soderbergh tutto è asettico, preciso, puntuale. Troppo. È come se la giusta preoccupazione di non fare un film a tesi o analitico abbia però finito per renderlo eccessivamente freddo, poco empatico. Tutto questo è un grave limite, perché stiamo parlando di un film e non di un documentario. Da una trasposizione cinematografica lo spettatore si attende infatti qualche espediente drammaturgico che serva a illustrare meglio i personaggi, o a comunicare emozioni e tensioni non univoche che spetterà poi a chi è seduto davanti al grande schermo metabolizzare per proprio conto. Senza complessità nella struttura della sceneggiatura e nei dialoghi, il film finisce per descrivere Guevara come un mito senz’anima.
Ma perché, si chiederanno gli spettatori più giovani, il Che è andato in Bolivia, dal momento che per tutte e due le ore che descrivono gli accadimenti della guerriglia in quel Paese si capisce subito che per Guevara non ci sono vie di uscita? C’è per altro un solo riferimento, e velocissimo, al Congo dove il Che ha passato gran parte del 1965. E chi sono quel francese Regis Debray e quell’argentino Ciro Bustos che sono catturati dopo un incontro alla macchia con Guevara? Nella prima parte del film non c’è nemmeno un po’ di emozione per l’incontro amoroso tra il Che e Aleida March, la giovane guerrigliera cubana che diventerà la sua seconda moglie. Inoltre, la scelta di seguire Fidel a Cuba sembra addirittura un caso fortuito.
Perché ha lasciato Cuba?
I suoi appena trentanove anni di vita, deve aver pensato Soderbergh, sono così speciali che vanno narrati con il semplice fluire degli eventi che trasformano un giovane medico argentino nel mitico Che. Ma una delle peculiarità di Guevara è la non linearità del suo pensiero politico, un pregio più che un limite: lui passa in pochi anni da una cieca fiducia nel “socialismo reale” dell’Unione Sovietica a una critica di quello stesso modello sociale e politico (si tratta della sua intuizione politica più fertile e duratura). Quel cambiamento di posizioni avviene in corso d’opera: mentre prima dirige la Banca nazionale di Cuba, poi diventa ambasciatore della rivoluzione in giro per il mondo e infine svolge con piglio l’incarico di ministro dell’industria. Di tutto questo non c’è traccia nel film, nemmeno un accenno. La sua ultima avventura in Bolivia è segnata dal disperato tentativo di cercare vie originali di emancipazione per il Terzo mondo e Cuba. Si era infatti convinto che L’Avana avrebbe finito per dipendere da Mosca, come prima era accaduto da Washington, se altre realtà latinoamericane non avessero seguito l’esempio cubano.
Guevara è stato statista e ministro, non esclusivamente un guerrigliero, come invece sembrerebbe dal lavoro di Soderbergh. Il Che ha dimostrato che anche chi, in determinate condizioni storiche, ha scelto la guerriglia deve riflettere e scrivere su ciò che va facendo. Lo palesa la quantità dei suoi scritti e appunti, alcuni tuttora inediti. Nella seconda parte del film, vediamo invece solo dei libri bagnati che vengono messi ad asciugare al sole (non aveva abbandonato l’abitudine allo studio e alla lettura neppure sulle montagne della Bolivia) e un Guevara che tiene tra le mani un’agenda, che diverrà poi il famoso Diario dalla Bolivia (fin da ragazzo aveva conservato l’abitudine ad annotare ogni giorno quello che gli capitava).
Tutte queste sfumature mancano al film diviso in due parti di Soderbergh. Ma non è una buona ragione per non andare al cinema a vederlo.